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Per Aspera Ad Veritatem n.25
Verso Gerusalemme

Carlo Maria Martini - Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, Ottobre 2002



L’eminente Cardinal Martini, già Arcivescovo di Milano oltre che insigne biblista di fama mondiale, ha riversato in questo libro tutto il suo profondo amore per Gerusalemme ed il popolo ebraico, amore che traspare ben oltre la mera conoscenza delle Scritture dell’esegeta biblico, per aprirsi ad uno sguardo che vuole essere di fede e di conoscenza insieme. “Verso Gerusalemme” è una grande lettera d’amore scritta alla “città della pace”, Jerushalaim, al punto da sembrare la missiva di un innamorato ebreo per la sua città. D’altro canto, rammentiamo l’impressione e gli interrogativi seguiti alla sua scelta di andare a Gerusalemme, una volta terminato il suo ministero a Milano. Molte risposte si troveranno entrando nel suo scritto, dove numerosi richiami scritturistici e teologici permettono al lettore di capire un po’ meglio quale grandezza rivesta il “mistero di Gerusalemme” e quello “d’Israele” secondo Carlo Maria Martini. Infatti, come egli stesso richiama, a partire dalla vasta produzione patristica dei primi secoli del Cristianesimo, l’immagine d’Israele era particolarmente vivida al punto che tutte le categorie teologiche, quali quelle di “Popolo di Dio”, di “Alleanza” di “Salvezza” etc., che già appartenevano alla tradizione giudaica, vengono reinterpretate dalla teologia cristiana proprio utilizzando quella precomprensione che ne aveva il popolo d’Israele. Questa precomprensione era essenziale per poter innestare “l’oleastro (cioè i popoli pagani venuti alla fede in Cristo) sull’olivo buono (cioè Israele)”, secondo le parole dell’Apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani. Tuttavia, col passare dei secoli questo stretto e profondo legame, che prima di tutto era un legame basato sulla medesima Sacra Scrittura (per quanto concerne l’Antico Testamento), si è logorato lentamente fino a deteriorarsi a tal punto da portar seco germi di profondo sospetto quando non di avversione verso quelli che, Giovanni Paolo II, ha poi definito i “nostri fratelli maggiori nella fede”. È a partire dai Documenti Conciliari del Vaticano II e specialmente dalla “Nostra Aetate” di Giovanni XXIII che questa posizione è radicalmente cambiata, almeno all’interno dell’élite culturale e biblico-teologica cristiana, per guardare nuovamente verso Israele come alle radici stesse del cristianesimo e ad una sorgente che può ancora dare linfa vitale allo sviluppo stesso della Chiesa. Dice Martini che già alla fine della 2ª Guerra mondiale è cominciata a svilupparsi una corrente teologica interconfessionale che ha letto, ad esempio, nel concetto di Popolo di Dio, non più solo la Cristianità come “nuovo popolo” ma nuovamente anche Israele. Il “pellegrino” Cardinal Martini, proprio a partire da questa rinnovata comprensione esorta a far discendere tale linfa vitale su tutta la Chiesa, non restringendo il respiro agli “addetti ai lavori”, ma allargandola a 360° a tutto il popolo cristiano, attraverso specifici corsi e seminari. In maniera quasi ardita invita alla conoscenza non solo biblica o teologica precrist
iana, ma anche a quella successiva, con lo studio del Talmud, della Mishna, e degli altri scritti che fanno parte dell’insostituibile bagaglio teologico di un ebreo. Un invito quindi, a guardare con amore e con la voglia di apprendere da quanti, parallelamente ai cristiani, hanno sviluppato il loro modo di rispondere a Dio Padre, nella fede, nella preghiera, ma anche nell’etica e nelle risposte sociali e politiche. In questo senso l’amore e il desiderio di andare “verso Gerusalemme” diventa paradigmatico di un cammino di amore e conoscenza sempre maggiore del “mistero d’Israele”, per arrivare a far coincidere, anche se solo come tensione escatologica, la Gerusalemme terrena con quella celeste. Nel corpo centrale del suo saggio, l’eminente biblista, a larghe pennellate ricorda quanti scrittori religiosi o laici hanno visto in Gerusalemme qualcosa che andava molto oltre le sue mura ma, al tempo stesso, come proprio quelle mura, quei sassi, quelle case siano espressione, per adesso forse solo nascosta nella fede, della città della pace. La Gerusalemme celeste, quindi, pur non identificandosi con quella terrena, neanche la esclude. Questo il leit motiv di tutta la trattazione di Martini. Gerusalemme, città cara a tutte e tre le tradizioni religiose abramitiche e monoteiste, città verso la quale secondo le profezie convergeranno tutti i popoli per farla diventare la città della pace, in cui tutte le nazioni si riuniranno, ma al tempo stesso città nella storia, lacerata, distrutta, simbolo più di odio che di amore. Città sulla quale già Gesù ha pianto - nei brani dell’evangelista Luca riportati da Martini – e questo a causa della sua incredulità, per non aver capito il momento in cui veniva “visitata” dall’inviato dal Padre, dal Figlio eterno “impronta della Sua Sostanza”. E tuttavia, dice Martini, anche questo è il mistero di Gerusalemme, che rivela il profondo rapporto che c’è tra la fede e la pace (come a dire che senza fede non può esservi pace). Sul tema più spinoso nel rapporto tra cristiani ed ebrei, Martini non va oltre. Parla del disincanto di Gesù, espresso nel Nuovo Testamento, di fronte ai valori reali del mondo presenti in quel tempo, quali la pax romana, l’equitas romana, la cultura greco-romana, la grande sintesi culturale ellenistica. Gesù, invece, dà importanza a valori quali “il piccolo gregge”, “chi si umilia sarà esaltato”, “chi accetta l’ingiuria vive il Vangelo”. Questi valori, dice Martini “non erano evidentemente compatibili con la sintesi sociale e civile greco-romana, per quanto elevata fosse”. Tuttavia, secondo alcuni interpreti, Martini dimentica di dire che il pianto di Gesù per Gerusalemme era proprio dato dal fatto che Israele aveva rifiutato il suo Messia, che “l’aveva visitato”, e che anzi lo avrebbe messo a morte. Non i romani o la pax romana, né la cultura greco ellenistica mettono a morte Gesù, ma di fatto è il popolo d’Israele che nei suoi capi assume questa responsabilità. Questo è il vero punto, la nota dolens nel rapporto ebraico cristiano, com’è noto di grande delicatezza. Si capisce bene che addentrarsi nella lettura teologica di questo evento che, d’altra parte, è fondamentale per la comprensione e il dialogo autentico tra le parti offre il fianco a letture “pericolose”. Ma se la questione non viene affrontata, il vero rischio è che ancora una volta nella storia vi possa essere qualcuno che s’impadronisca di tali argomentazioni per far riaffiorare quello che per duemila anni è stato forse il vero grande dramma che si è vissuto sulla scena religiosa, ma anche sociale e politica, del mondo occidentale. In questo senso, se la Shoà non ha rappresentato l’espressione del risentimento cristiano, come ben fa intendere l’eminente studioso, certamente tale risentimento ha creato quell’humus culturale sul quale ha avuto facile gioco a crescervi il fanatico odio pagano e antisemita del Nazismo. Per questo la risposta, a livello teologico, per quanto depotenziata da tutte le maligne zizzanie della divisione e dell’odio, dovrà essere data e non può essere elusa. Questo perché solo una risposta teologica è capace di togliere linfa vitale alle radici dell’odio che si possono alimentare, falsamente, dalle Scritture religiose. In questo punto può ravvisarsi tutta la potenzialità di ulteriori riflessioni che potranno muovere proprio da tale bellissimo affresco - lettera d’amore di un cardinale cattolico al “mistero d’Israele e alla sua città Gerusalemme” - che lascia sullo sfondo del quadro uno spazio da riempire e con esso la possibilità che altri vi possano intervenire.



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